giovedì 27 agosto 2009

4. Democrazia rappresentativa

Se ora al posto di «diretta» usiamo l’aggettivo «rappresentativa», ancora una volta, non interveniamo sulla sostanza dei valori democratici, ma stiamo semplicemente indicando una modalità operativa, stiamo cioè dicendo che i cittadini esercitano il proprio potere attraverso dei rappresentanti eletti senza vincolo di mandato. Qualcuno (Benedikter 2008; Michelotto 2008) vede in ciò un limite per la democrazia e perciò chiede l’introduzione di nuovi strumenti di democrazia diretta, che però, come abbiamo detto, hanno il limite di muoversi nell’ambito procedurale e di non entrare nel merito dei valori democratici. Il fatto è che la procedura, qualunque procedura (suffragio, referendum o altro), non garantisce sulla qualità della democrazia. Un paese può pure disporre della migliore costituzione e delle migliori procedure, ma finché non sia riuscita a risolvere la piaga della povertà e dell’ingiustizia sociale, molti suoi cittadini non godranno della pienezza dei diritti democratici e che ci saranno ancora limiti di democraticità.
La DR è una forma di governo che affida il potere politico a rappresentanti eletti mediante voto libero e periodico e con suffragio universale, e che ruota attorno ad alcuni fondamentali princìpi (sovranità popolare, rappresentanza, maggioranza e pluralismo), alcuni fondamentali diritti (libertà, uguaglianza di fronte alla legge e informazione aperta a tutti), alcune fondamentali istituzioni sociali (proprietà privata, partiti politici, famiglia e gruppi di potere) e alcuni fondamentali obiettivi (sicurezza e benessere sociale economico). In realtà, è solo teoricamente che il potere sovrano appartiene al popolo, che tutti i cittadini possono essere eletti, che tutti possono esprimere le proprie opinioni e accedere a fonti di informazione alternative a quelle offerte dal sistema, che tutti sono liberi di costituire associazioni e gruppi di interesse e di competere in condizioni d’uguaglianza. Concretamente, nessun cittadino, preso individualmente, è veramente libero, e questi diritti possono essere esercitati concretamente solo all’interno di gruppi di potere e tramite rappresentanti.

4.1. La DR come «società duale»
In generale, chiamiamo «società duale» ogni comunità organizzata, nel nostro caso uno Stato, ove sia possibile distinguere agevolmente due diversi livelli di cittadinanza: quello dei cittadini-rappresentanti, che sono accreditati delle qualità necessarie per assumersi responsabilità di governo, e quello dei cittadini-comuni, che si ritiene sprovvisti di quelle qualità; quello dei cittadini agiati, che sono liberi di impostare e seguire il proprio progetto di vita, e quello dei cittadini indigenti, che ogni giorno devono fare i salti mortali per far quadrare il bilancio familiare e ai quali non resta il tempo per occuparsi d’altro che di sopravvivere; cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Il modello duale di società è alimentato dalla logica di gruppo e dalla ragion di Stato che, per millenni, hanno dominato la scena politica, sovrastando il cittadino comune, oberandolo di doveri (soprattutto quello di ubbidienza a Dio, alle autorità e alle leggi), e obbligandolo a svolgere un ruolo secondario e strumentale agli interessi di altri soggetti politici (il re, il partito, l’istituzione, la famiglia, la maggioranza, la patria, la legge, la religione). Questo è il quadro che caratterizza i sistemi politici autoritari, paternalistici e autocratici, che si sono succeduti nel corso della storia.
Lo stesso quadro viene riproposto anche nelle DR contemporanee, sia pure con due principali differenze. La prima è che nell’autocrazia i governanti vengono prescelti dal monarca, nella democrazia dai partiti. La seconda differenza è che nei regimi autocratici il potere si conquista con l’uso delle armi, in DR con le elezioni. Non per niente la DR è stata indicata da Hayek come “l’unico metodo pacifico di mutamento di governo finora scoperto” (1994: 377). Rispetto all’autocrazia si tratta, con tutta evidenza, di un significativo passo in avanti, ma solo sotto il profilo formale. Permane, infatti, la netta distinzione fra i titolari effettivi della sovranità e i cittadini, fra gli eletti e gli elettori, i delegati e i deleganti, i dominanti e i dominati, quelli che decidono e quelli che subiscono, le persone che godono pienamente dei diritti previsti dalla legge e quelle che ne sono escluse. Giovanna Zincone parla di «cittadinanza disuguale» e aggiunge: “Che la cittadinanza non sia un pacchetto di diritti uguali per tutti non è un’eccezione, è la regola” (1992: 9).
Sostanzialmente, dunque, la società duale DR non è molto diversa da quella dei sistemi autocratici. E infatti, in ogni Stato e in ogni città DR i due livelli sono ben riconoscibili e danno vita a due realtà profondamente diverse: nella cittadinanza di serie A c’è istruzione, cultura, conoscenza, organizzazione, abbondanza di beni, ostentazione di lusso; nella cittadinanza di serie B c’è ignoranza, disordine, ristrettezza e miseria. I pochi riducono i salariati a ceto servile e ricorrono alla forza per difendere i propri interessi. “Come il salariato, venendo a sostituirsi all’economia a servi e a schiavi, ha reso inutile ogni costrizione per mantenere il lavoratore nello stato di soggezione, e ne ha realizzato la soggezione automatica e, apparentemente, libera e spontanea; così coll’esercito permanente, a base di coscrizione, si è raggiunto questo curioso risultato di far sì che il popolo stesso presti automaticamente la forza materiale per assicurare il predominio della classe politica dominante sopra sé medesimo” (Rensi 1995: 88-9).
Questo quadro è particolarmente preoccupante se pensiamo che i paesi DR costituiscono la parte più avanzata e civile dell’umanità. Negli altri paesi è peggio, nel senso che la distanza fra le classi sociali è ancora più marcata e i cittadini di serie A sono meno numerosi. Il risultato è duplice: da una parte, non c’è al mondo città, per quanto civile e ricca, che non contenga un campionario di miseria, indigenza, vagabondaggio e disoccupazione; dall’altra parte, non c’è città di infimo livello dove, accanto all’indigenza delle masse, non sia possibile notare la magnificenza di una minoranza di persone che si muovono nella sfera dell’alta tecnologia e dell’alta moda, dei grandi affari e dell’alta finanza. Nella ricca Europa, ad esempio, si contano oltre 50 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (Atkinson 2000: 11). Non migliore è la situazione nel più ricco paese del mondo, gli Usa, che “registrano la più elevata [fra i paesi ricchi] percentuale di popolazione in condizione di povertà relativa (17%)” (Ginsborg 2004: 5-6).
Ora, se con una semplice operazione mentale, mettiamo insieme tutte le società duali del pianeta e le consideriamo come se fossero un’unica realtà, noteremo non uno, ma Due Mondi: il primo è quello dei ricchi, il secondo quello dei poveri. Nel mondo duale sono facilmente riconoscibili un esiguo numero di persone così ricche da vivere ad un livello quasi sovrumano e una massa di persone così povere da vivere ad un livello quasi subumano. È stato calcolato, infatti, che, nel 1999, le 225 persone più ricche della terra possedevano un patrimonio pari al reddito di un intero anno del 47% della popolazione più povera del pianeta e cioè di 2,8 miliardi di persone.
Nel mondo duale i pochi cittadini liberi condizionano e guidano dall’esterno le masse come se fossero bambini o marionette: è il cosiddetto «problema di Pinocchio». Ebbene, i fili che muovono gli individui non sono presenti solo nei regimi autoritari, ma sono ben visibili anche nei paesi a regime DR, e poco cambia se, al posto dei tiranni a muoverli siano i molteplici attori del capitalismo globale: in entrambi i casi il «problema di Pinocchio» resta irrisolto.
Ebbene, ai fini della democrazia, la povertà costituisce un problema, dal momento che i poveri sono, in varia misura, escluse dall’esercizio dei diritti e impossibilitati ad organizzarsi e a portare avanti una qualsiasi azione politica seria. Perciò, quanto maggiore è il numero degli esclusi, tanto minore è l’effettualità dei valori democratici.

4.2. Democrazia come sistema procedurale
Ora, se ci limitiamo a definire la democrazia «governo del popolo» senza preoccupazione alcuna per i valori, l’unica cosa che possiamo fare è mettere a punto le più opportune norme procedurali atte a consentire al popolo di governare. Ed è questo che fanno prevalentemente le nostre repubbliche democratiche: “stabiliscono come si debba arrivare alla decisione politica non che cosa si debba decidere. Dal punto di vista del che cosa l’insieme delle regole del gioco democratico non stabiliscono nulla” (Bobbio, Democrazia, in Bobbio, Matteucci, Pasquino 2004). Così facendo, esse trascurano i valori e riducono la democrazia ad un semplice sistema di cariche istituzionali e di procedure, che può variare, dando origine a modelli democratici diversi.
Regole e procedure fanno parte integrante della DR, con la quale a volte si identificano. “Che cos’è la democrazia se non un sistema di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue?” (Greco 2000: 242). Essa, osserva Bovero, “è formale per definizione” (2000: 34). Così intesa, la democrazia è caratterizzata non tanto dai valori che proclama, quanto dalle regole che mette in campo; non dai contenuti della sua costituzione, ma dalla forma in cui vengono resi operativi; non dai princìpi di giustizia sociale, ma dagli iter burocratici. In altri termini, la DR è orientata più al rispetto delle regole che ai bisogni degli individui. Questo è il leitmotiv che è stato continuamente ripetuto da molti studiosi e che ha in Hans Kelsen uno degli uomini di punta. Ebbene, per il pensatore austriaco, in politica conta soprattutto la forma, mentre la giustizia è ridondante.
Tra gli epigoni più recenti di Kelsen, può essere ricordata Anna Pintore (2003), che colpisce per l’acribia teoretica della sua indagine speculativa. Nel suo lavoro, la studiosa prende le distanze da alcuni fra i più eminenti intellettuali contemporanei, come D. Thompson, A. Gutmann, J. Cohen, J. Habermas e J. Rawls, che, a suo giudizio, hanno il torto di mescolare arbitrariamente la democrazia con la giustizia e i diritti. Secondo la Pintore “questa reductio ad unum di diritti, democrazia e giustizia sociale […] è altamente inopportuna e nociva” (2003: 92). Che cos’è, dunque, la democrazia per la Pintore? Nient’altro che un metodo procedurale imperniato soprattutto sul principio di maggioranza. “In alternativa al principio di maggioranza c’è solo il principio di minoranza, c’è solo l’autocrazia” (2003: 106). Pretendere di trovare nella democrazia giustizia e diritti è, per la Pintore, “utopistico” (2003: 71).

4.3. Democrazia come suffragio universale
In DR, la partecipazione dei cittadini è un atto non fondamentale e limitato al voto. Infatti, “l’estensione massima possibile del supporto elettorale è il requisito richiesto per chiamare un sistema «democratico»” (Linz 2006: 426). È come dire che la DR si riduce al suffragio universale e a poco altro. Nietzsche, che ha definito il suffragio universale quel “sistema grazie al quale le nature inferiori si impongono alle superiori a norma di legge” (1994: 471), si sarebbe fatta un’idea pessima della DR.

4.4. Democrazia come governo della maggioranza
Le democrazie dei moderni sono sistemi di governo fondati sul principio di maggioranza. Secondo tale principio, la maggioranza redige l’ordine del giorno e governa, la minoranza va all’opposizione. Assieme alla procedura, il principio di maggioranza è ritenuto una componente essenziale della democrazia.

4.5. Democrazia come governo dei partiti
In tutti i paesi a regime DR i partiti esercitano “un sostanziale monopolio dell’azione politica” (Salvadori 2009: 30) e sono considerati “indispensabili per organizzare la volontà pubblica” (Della Porta 2009: 17). Essi, pertanto, costituiscono una componente connotativa della DR, insieme al principio maggioritario e quello procedurale.

4.6. Limiti della DR
4.6.1. Rappresentanti/Rappresentati
Se è vero che il voto è la massima espressione della procedura democratica, è anche vero che esso “è solo la facoltà concessa ai cittadini di scegliere chi li dovrà governare” (Hirst 1999: 7). Il potere politico reale è in gran parte esercitato dai segretari dei partiti stessi e non dai cittadini, e il suffragio universale non si prefigge di favorire l’effettiva partecipazione del cittadino, o l’esercizio effettivo della sovranità individuale, e tanto meno l’autogoverno popolare. La sua funzione è invece quella di consentire ai cittadini di esprimere un voto su una lista di candidati designati dal partito ed eleggere, in tal modo, dei rappresentanti.
4.6.2. Il politico di professione
Il passaggio dalla democrazia elitaria alla democrazia di massa sancito dall’introduzione del suffragio universale ha favorito l’affermazione del politico di professione, che è disposto a investire tempo e denaro, allo scopo di acquisire i voti necessari per essere eletto e iniziare una carriera lucrosa. Ma, così facendo, osserva Luciano Canfora, la democrazia è perduta. Infatti, “è improprio definire «democrazia» un sistema politico nel quale il voto è merce sul mercato politico, e l’ingresso nel Parlamento comporta una fortissima «spesa» elettorale da parte dell’aspirante «rappresentante del popolo»” (2002: 27).
4.6.3. Scarsa democraticità del maggioritario
La scarsa democraticità della DR vale soprattutto per i sistemi maggioritari. La «forzatura» maggioritaria, infatti, “determina necessariamente un governo di minoranza” (Canfora 2006: 319), penalizzando qualunque Terza forza. Alla fine, il principio di maggioranza si rivela per essere poco più di un puro e semplice fenomeno di illusionismo democratico, un semplice espediente per tener buona la gente. Canfora parla di “democrazia oligarchica”, ma forse sarebbe più corretto parlare di «oligarchia plutocratica», per indicare che, di norma, i rappresentanti eletti appartengono alla cerchia delle persone più facoltose. Infatti, almeno in America, “i candidati devono essere o molto ricchi o molto dipendenti da persone molto ricche, se vogliono essere eletti” (Dahrendorf 2001: 58). In realtà, anche in Italia la ricchezza è un fattore determinante per “costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (Canfora 2006: 331).
4.6.4. Il fenomeno della corruzione
Una delle conseguenze della politica come professione è il fenomeno della corruzione, una sorta di virus endemico che altera i più o meno pregevoli impianti costituzionali dei vari paesi cosiddetti democratici, offrendoci il quadro di una democrazia malata, se non addirittura di una non-democrazia. “La corruzione intacca il principio della trasparenza, inducendo lo sviluppo di un sistema di scambi illeciti che garantisce un accesso privilegiato a chi è disposto a pagare tangenti, cioè a violare la legge nella ricerca di una protezione individuale” (Della Porta, Vannucci 1994: 91). Anche se con sensibili variazioni quantitative, la corruzione “appare sempre di più un problema comune a molte, se non a tutte, le democrazie” (ivi p. 4-5) e rappresenta “una delle espressioni più drammatiche delle contraddizioni cui va incontro il modello trionfante della democrazia” (ivi p. 4).
4.6.5. Il fenomeno dell’astensione
Un’altra conseguenza del professionismo politico è che i cittadini si allontanano dalla politica, lasciando campo libero a gruppi di interesse, lobby e partiti, e sono a questi che i rappresentanti eletti dovranno render conto più che ai cittadini elettori, col risultato che la loro azione di governo sarà orientata più ad interessi di parte che all’interesse generale. Questo è quanto lamenta, per esempio, Fareed Zakaria, in riferimento agli Usa (2003: passim), e non c’è ragione di credere che la situazione in Italia sia diversa.
4.6.6. Il paradosso della DR
Oggi è diffusa l’opinione che un paese “è democratico se permette ai propri cittadini di scegliersi il governo che vogliono attraverso elezioni periodiche, pluripartitiche ed a scrutinio segreto, in base al suffragio uguale e universale” (Fukuyama 1996: 64). Un paese democratico è considerato civile quando rispetta la procedura democratica, mentre si dà meno importanza al fatto che non tutti i cittadini riescono ad esercitare i propri diritti fondamentali. È il paradosso della DR: proclamare diritti universali e non preoccuparsi di renderli effettivi! In pratica, tolleriamo che la massa dei cittadini comuni rimanga esclusa dall’esercizio del potere e i più poveri fra essi siano, di fatto, esclusi dall’esercizio dei più elementari diritti democratici.
Ci professiamo democratici, ma forse non lo siamo veramente. Forse la professione di democraticità è solo una pezza giustificativa per la nostra cattiva coscienza e il termine «democrazia» è “il nome di ciò che non possiamo avere, e che tuttavia non possiamo smettere di volere” (Dunn 1983: 51-2). Massimo L. Salvadori parla di “democrazia senza democrazie” (2009). Rimane il sospetto che, in fondo, la DR sia solo una pseudo democrazia e che la democrazia, quella vera, sia “rinviata ad altre epoche” (Canfora 2006: 367).

4.7. DR: luci e ombre
Il fatto che il sistema DR si sia affermato in molti paesi del mondo e sia operativo presso cinque civilissimi paesi del Nord Europa (Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia e Finlandia) prova la sua intrinseca validità. La DR è sicuramente preferibile ai governi autocratici, rispetto ai quali riconosce maggiori diritti e moltiplica i centri di potere, tanto da meritare l’appellativo di «poliarchia».
Per contro, la DR è un sistema politico non pienamente democratico, perché non riconosce la sovranità dell’individuo. Diceva Montesquieu nello Spirito delle leggi: “il popolo, ciò che non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri (II,2). Ma soltanto ciò che non può fare da solo. Oggi noi diciamo il contrario: il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti” (Bobbio 1999: 375). Questo tipo di democrazia, osserva Bobbio, si potrebbe chiamare “aristocrazia elettiva” o “elitismo democratico” (1999: 375), o in qualsiasi altro modo, ma non democrazia.

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