giovedì 27 agosto 2009

1. Verso una società migliore

1.1. Per una nuova utopia di buongoverno
Nel corso della storia non sono mancati quanti hanno sognato di poter realizzare un cambiamento radicale della propria società, e sono stati chiamati «utopisti», che significa «poveri illusi», «ingenui» o addirittura «folli», e i fatti sembrano giustificare questi epiteti. Infatti, la storia dimostra che le società sono organismi statici o a lenta evoluzione e nessuna utopia diventa realtà, nessuna ha la forza per imporsi, perché non vi aderiscono né le masse, né gli aristocratici, le une e gli altri essendo diffidenti o contrari nei confronti delle novità e dei cambiamenti. Ciononostante, gli uomini non hanno mai smesso di raccontare i loro sogni e le loro aspirazioni e ci hanno lasciato testimonianze ad imperituro ricordo, che vanno dal giardino dell’Eden alla Repubblica di Platone, dal Regno di Dio del Nuovo Testamento ai movimenti millenaristi, dalla Città del sole di Tommaso Campanella all’Utopia di Tommaso Moro, dal Codice di natura di Morelly al Contratto sociale di Rousseau, dall’egualitarismo di Babeuf al socialismo utopico, dal positivismo allo scientismo, dal comunismo universale all’economia della felicità. Tutto ciò testimonia l’irrefrenabile anelito dell’uomo ad un mondo migliore, anche se poi la realtà delle cose è tale che questi desideri svaporano nell’utopia, cioè nel nulla.
Oggi il pensiero utopico sembra fuori moda, se non altro per la difficoltà di poterlo riproporre in un’epoca di disincanto. Eppure, se guardiamo bene, possiamo scorgere elementi di utopia nella fiducia che riponiamo nella crescita illimitata del progresso, nella felicità consumistica, nell’onnipotenza del mercato, nel mondo globalizzato, ma anche in quella democrazia procedurale che è indicata come lo stato dell’arte della politica, come la pietra tombale dei regimi autocratici, mentre l’altra grande utopia, la DD, seppur vagheggiata da molti, continua ad essere ignorata dai più o semplicemente ritenuta una chimera. Proprio le grandi sfide del giorno d’oggi, dalla globalizzazione al fenomeno demografico, dal consumismo all’inquinamento ambientale, dalla diseguale distribuzione delle risorse al rischio di annientamento atomico, queste sfide rendono ancora attuale l’anelito verso un mondo migliore, perfino all’interno di una grande istituzione religiosa millenaria, che dovrebbe ormai rappresentare una sorta di punto di arrivo, ovvero il migliore dei modelli sociali possibili. Ebbene, un illustre membro di questa chiesa, il sacerdote-teologo Hans Küng, si è espresso recentemente con queste parole: “A mio parere è necessaria essenzialmente una visione argomentata di un ordine mondiale migliore, a partire dalla quale possano essere decise le strategie e le tattiche per attuarla” (2010: 321). Evidentemente, il mondo in cui viviamo lascia ancora a desiderare e ciò rende ancora attuale il desiderio di poter vivere in una società «migliore». Ma come dovrebbe essere questa società?

1.2. La società migliore
Secondo Enrico Diciotti, la «società migliore» dovrà collocarsi ad un livello intermedio fra il comunismo e l’anarco-capitalismo, dovrà essere cioè una società di tipo misto, che, alla fine, potrà “apparire più simile a una democrazia comunista che ad una società di mercato, o viceversa più simile a una società di mercato che ad una democrazia comunista; ma la verità è che ragionevolmente condividerà tratti di entrambe” (2006: 204). Lo studioso si ferma qui e rimanda ad una discussione ben più lunga e complessa il compito di descrivere in modo puntuale questa nuova società (2006: 207).
Oggi, almeno in Occidente, probabilmente i più non esiterebbero ad affermare che la «società migliore» vagheggiata da Diciotti, qualunque essa sia, non possa essere altro che una democrazia. Ma quale democrazia? La tesi che sosterrò in questi blog è che la società migliore non è la democrazia rappresentativa (DR), bensì la democrazia diretta (DD), e cercherò di dimostrare il mio assunto ponendo a confronto le due democrazie.
Affermerò che la DD è la forma di democrazia che meglio valorizza il capitale umano, che meglio coniuga ciò che di buono hanno espresso il comunismo e il capitalismo e che meglio risponde alla crescente richiesta di glocalismo. Affermerò che una buona DD deve riconoscere a tutti i cittadini un reddito minimo garantito (RMG) a tutela dell’effettivo esercizio dei propri diritti fondamentali, che sono la vita, la salute, la libertà, le pari opportunità, il libero accesso alle informazioni, il pensiero autonomo e responsabile, la sovranità e la partecipazione politica. Partendo da questa base, proverò a spiegare le ragioni che mi inducono a vedere nella DD la forma di governo più giusta sotto il profilo etico, più performante sotto il profilo amministrativo e più redditizia sotto il profilo economico, rispetto ad ogni altra. Affermerò, infine, che la DD è l’unica forma di governo in grado di garantire condizioni di pace e di prosperità a livello mondiale, di rispondere adeguatamente alle sfide della globalizzazione, dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile, di dare agli uomini prospettive di serenità e forse anche la felicità che essi sognano da tempi immemorabili.

1.3. Tempi di attuazione
La mia tesi afferma anche che la DD è una forma di governo non utopico, ma potenzialmente operativo, sia pure in tempi non brevi. C’è però uno sparuto gruppo di persone, in prevalenza giovani, intelligenti, entusiasti, ottimisti, che non solo conoscono il modello DD, ma lo ritengono anche facilmente attuabile. L’unico problema che vedono è quello dell’informazione. Se la gente conoscesse la vera democrazia, pensano, molti vorrebbero aderirvi e, in poco tempo, la DD sarebbe una realtà consolidata nel nostro paese e nel mondo. Accomunati dallo scontento per gli attuali regimi, questi giovani hanno cominciato ad organizzarsi dando vita a movimenti locali e anche a reti internazionali, comunicando abitualmente via Internet e talvolta riunendosi in convegni per scambiarsi esperienze e opinioni. Stampano e distribuiscono volantini, se possono pubblicano articoli o partecipano a programmi televisivi, i più facoltosi fondano riviste proprie a diffusione locale. Nulla essi lasciano di intentato per sensibilizzare l’opinione pubblica e per incamerare i consensi di quanti sono scontenti della politica attuale e convertirli alla DD. Per questi giovani la DD è un partito come gli altri, una cosa semplice, che chiunque può agevolmente capire e metabolizzare. Essi vogliono la DD, e subito e, a mio parere, sbagliano.
Diversamente da ciò che sognano questi giovani esuberanti, io credo che la DD comporti un radicale mutamento dei valori correnti e l’edificazione di una società così profondamente diversa da ogni altra a noi nota da richiedere tempi anche lunghi. Del resto, per una rivoluzione di così ampia portata non bisogna avere fretta. Dobbiamo prepararla e prepararci affinché quando essa verrà, non dovremo assistere ad una meteora, a un lampo di luce, ad uno squillo di tromba, ma ad una conquista stabile, imperitura e irrinunciabile.

2. Democrazia senza aggettivi

“All’epoca nostra, la democrazia è data per scontata, laddove si tratta invece di uno dei più rari, delicati e fragili fiori sbocciati nella giungla dell’umana esperienza […]. Soltanto nell’antica Atene e negli Stati Uniti la democrazia è durata due secoli. La monarchia e forme diverse di dispotismo, invece, hanno avuto vita millenaria” (Kagan 1991: 4). Ma che cos’è questo fragile fiore?
Chiunque abbia cercato una definizione soddisfacente e non banale di democrazia sarà rimasto deluso nel constatare che una tale definizione non c’è e forse, possiamo aggiungere, nemmeno ci può essere. In senso letterale, il termine «democrazia» deriva dal greco e indica quel sistema politico in cui il potere è esercitato dal popolo. Ora, questa definizione è fuorviante perché, come avremo modo di dimostrare, il popolo è un attore dalle mille facce, un soggetto inafferrabile e continuamente mutevole nella composizione e negli interessi, e il fatto che qualcuno proponga l’espressione “popolo al potere” (Preve 2006: 19), anziché “potere del popolo” non cambia la sostanza delle cose.
Comunque la voglia intendere, la democrazia non è solo un programma politico, ma è piuttosto un sistema culturale che investe ogni settore della vita (economico, sociale, giuridico, amministrativo, finanziario), il che ha indotto Takis Fotopoulos a parlare di «democrazia globale» (1999). Ha ragione, dunque, Massimo Fini quando osserva che “Nessun elemento, preso di per sé, sembra esclusivo della democrazia e quindi abile a definirla” (2004: 45).

2.1. Origini e sviluppo
La democrazia è un sistema di governo che, per quanto ne sappiamo, è stato ideato e attuato per la prima volta nella Grecia del VI-V secolo a.C., in un’epoca in cui la polis era considerata la struttura politica per eccellenza. Ebbene, sotto il termine «politica» (termine che deriva appunto da polis) i greci compresero “tutte (o quasi) le attività che riguardano la polis e che si svolgono nel suo ambito” (Pasquino 2008: 4), di cui ogni cittadino avrebbe dovuto occuparsi attivamente e responsabilmente, senza (nel limite del possibile) delegare alcuno. Questo modo di intendere la politica, che i greci chiamarono democrazia (senza aggettivi, perché all’epoca la democrazia era solo di tipo diretto), venne del tutto abbandonato dopo la caduta della polis e solo negli ultimi due secoli è stato ripreso e modificato per adattarlo alle nuove, ben più grandi e complesse strutture politiche, gli Stati-nazione. Si è così prodotta una nuova forma di democrazia, la democrazia rappresentativa, che in precedenza era del tutto sconosciuta.

2.2. Forme di democrazia
Si riconoscono dunque almeno due forme di democrazia, una diretta (o assembleare, o partecipativa, o degli antichi) e una rappresentativa (o indiretta, o parlamentare, o dei moderni), e si tratta, come vedremo, di due modelli molto diversi fra loro (d’ora in avanti le designeremo rispettivamente con gli acronimi DD e DR). Di questi due modelli, oggi conosciamo quasi esclusivamente il secondo, che, almeno in Occidente, è ritenuto il miglior modello politico esistente (Lindblom 1979: 375) e forse anche il miglior modello politico concepibile, a tal punto da indurre molti a credere che la democrazia possa e debba essere esportata in altri paesi anche con la forza. Ai nostri tempi, essere democratici è di moda. “Tutti gli stati oggi si professano democratici perché la virtù di uno stato è di essere una democrazia” (Dunn 1983: 27). Ciò non vuol dire che sappiamo esattamente che cosa significhi e neppure che ci sia un significato univoco di democrazia. In realtà, “Pochi concetti appaiono chiari e sono così confusi come quello della democrazia” (Cassese 1995: 41). La democrazia è un fenomeno complesso e, se vogliamo ben comprenderla, dobbiamo sforzarci di guardare ad essa con occhio distaccato e spirito sereno. Iniziamo col prendere in considerazione la democrazia senza aggettivi.

2.3. Democrazia come sovranità popolare
Tutti sappiamo che il termine «democrazia» deriva dal greco e significa «governo del popolo». “Democrazia vuol dire sovranità popolare” (Calamandrei 1995: 95). Lo ripetono in tanti. Takis Fotopoulos scrive: “sul piano politico non può esserci che unica forma di democrazia: l’esercizio diretto della sovranità da parte del popolo stesso, una forma di istituzione sociale che rifiuta qualsiasi forma di «governo» e che istituzionalizza l’equa ripartizione del potere politico tra tutti i cittadini” (1999: 23). Secondo Verhulst e Nijeboer, “Democrazia significa che il popolo fa le leggi” (ivi p. 14). Lo conferma la nostra costituzione, che dice appunto: “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1).
Tuttavia, in assenza di specificazioni, questa espressione rischia di rivelarsi troppo generica e fuorviante, non tanto per quel che attiene il termine «governo», che sembra sufficientemente chiaro, quanto per il termine «popolo», che invece “si caratterizza per una polisemia e una varietà di usi che ne fanno uno strumento retorico molto apprezzato e una nozione difficile da analizzare” (Mény, Surel 2001: 171).
Su queste basi è possibile comprendere perché esistano innumerevoli modi di intendere la democrazia, nessuno dei quali è esaustivo e appagante.
Aristotele distingue quattro forme di democrazia (Pol. 4, 1291b – 1292a).
1. Quella basata sul principio di eguaglianza e di maggioranza per numero.
2. Quella in cui le cariche dipendono in parte dal censo.
3. Quella in cui sovrana è la legge e non la massa.
4. Quella in cui sovrana è la massa e non la legge.
Per lo Stagirita la migliore sarebbe la prima (Pol. 4, 1318b).

2.3.1. Che cos’è il popolo?
Storicamente, il termine «popolo» è stato usato per indicare «i molti», «i più», «le masse», «i poveri», «i ricchi», «i più istruiti», «lo Stato», «la nazione», «gli uomini in armi», «la classe dominante», «i proprietari», «tutti i cittadini», «tutti gli individui residenti», «la maggioranza», e via dicendo. Oggi, in un paese come l’Italia, potremmo attenderci un consenso pressoché unanime su espressioni del tipo: «il popolo italiano sono tutti i cittadini italiani», oppure “Democrazia significa governo di tutti [i cittadini italiani]” (Baldassarre 2002: 281). Sennonché è pressoché impossibile che «tutti i cittadini» possano operare come se fossero un’unica persona e come se avessero una sola volontà. Così, nella pratica, il popolo è solo una parte dei cittadini (la maggioranza degli elettori, i cittadini possidenti, la massa dei cittadini più poveri, i partiti, il parlamento, gli oligarchi, il monarca, e via dicendo), col risultato che quella «parte» avocherà a sé il diritto di comandare e decidere sulla totalità. Ha ragione dunque W. Pohl quando afferma che “I popoli sono concetti astratti” (2000: 2). In conclusione, «popolo» è un termine fluido e inadatto a connotare la democrazia. Infatti, a seconda di cosa intendiamo per popolo, non solo cambierà il significato di democrazia, ma potremmo addirittura trovarci di fronte ad un sistema politico non democratico.

2.3.2. Il cittadino democratico
Più che il popolo è il cittadino democratico che si presta a connotare la DD. Per capire cosa intendo per cittadino democratico prendo in prestito l’idea di empowerment, che da alcuni decenni è entrata nel gergo socio-politico. Empowerment è un termine che può essere usato in riferimento ad una persona o ad un gruppo (un’impresa, un’istituzione, o altro) e significa essenzialmente mettere al primo posto la persona e il suo talento, valorizzare le specifiche potenzialità di ciascuno e consentirne la partecipazione attiva e responsabile nella famiglia, nell’impresa, nella società e nello Stato. Un soggetto empowered è innanzitutto una persona libera e autonoma, che esige rispetto e rispetta (Piccardo 1995: 33). Empowerment potrebbe essere definito come “il processo di sviluppo dell’individuo, membro della «polis», al più alto livello delle proprie possibilità personali e spirituali” (Piccardo 1995: 56). Empowerment significa avere fiducia nelle proprie capacità, avere la padronanza nel proprio ruolo e nei propri compiti, assumersi le proprie responsabilità, essere imprenditore di se stessi. Significa anche che in un’azienda nessuno svolge mansioni puramente esecutive, né obbedisce acriticamente ad ordini gerarchici, ma ha competenza in quello che fa e ne è responsabile (Piccardo 1995: 20). Ebbene, il concetto di empowerment si attaglia perfettamente all’idea di cittadino democratico.
Chiamo democratico il cittadino autonomo nel pensiero e nel giudizio (libero), disposto a spendere parte del suo tempo in questioni di pubblico interesse (partecipativo) e a rispondere delle proprie azioni (responsabile). Ora, va da sé che un cittadino non nasce democratico, ma deve diventarlo, e può diventarlo solo grazie all’opera educativa della comunità e alle leggi dello Stato. Un cittadino può essere democratico solo se ha ricevuto un’adeguata istruzione, se può accedere alle informazioni che lo interessano, se è capace di fare una sintesi personale di ciò che osserva e apprende, se non è assillato da problemi di salute e di sussistenza. Un cittadino può essere democratico solo se lo vuole, se accetta di buon grado di impegnare la sua mente nell’imparare, nella conoscenza, nello studio, nella riflessione, nel ragionamento, ma anche nell’ascolto dell’altro, nel confronto, nel confronto e nella deliberazione. Io credo che la democrazia debba essere vista come la risultante di un processo culturale che, avvicinando lo Stato al cittadino e il cittadino allo Stato, crea un circolo virtuoso in base al quale lo Stato educa i cittadini alla propria autonomia e il cittadino autonomo genera un sistema politico democratico. Alla fine, “la democrazia è quel processo educativo comunitario, in cui […] la plebe diventa popolo, e il popolo va al potere” (Preve 2006: 125).
Dal canto suo, lo Stato deve adoperarsi e vigilare affinché i diritti fondamentali siano effettivamente fruiti da tutti i cittadini e non deve ostacolare la libera espressività degli individui. Uno Stato che disattenda a questa sua primaria funzione, e l’Italia è tale, non può essere definito democratico, bensì, come osserva Costanzo Preve, “una oligarchia” (2006: 23). Il nostro paese mal sopporta i cittadini democratici, mentre incoraggia coloro che sono disposti ad alienare la propria libertà, a delegare, a riporre la fiducia ai partiti e ai rappresentanti di partito, a rinunciare al libero pensiero personale, alla libera opinione e alla partecipazione attiva. Il nostro paese conferisce la sovranità al popolo, ma solo in teoria. Infatti, concretamente la sovranità è esercitata dal Parlamento. Ebbene, un paese è veramente democratico allorché il potere sovrano è esercitato effettivamente da tutti i cittadini democratici. “Il potere del popolo, o meglio il popolo al potere – scrive Preve, presuppone un insieme di cittadini consapevoli, informati e soprattutto sovrani del contenuto della propria decisione politica” (2006: 22).

2.4. Democrazia come modello politico senza identità
In ogni caso, indipendentemente cioè da cosa vogliamo intendere col termine «popolo», affermare che democrazia è il «governo del popolo» significa ammettere che è democratico tutto ciò che decide liberamente il popolo. Il fatto è che non possiamo sapere in anticipo ciò che deciderà il popolo di caso in caso. Il popolo, infatti, potrà decidere di avere o non avere partiti, di assegnare le cariche istituzionali per votazione, per sorteggio o per nascita, di farsi rappresentare (DR) o di attuare un autogoverno (DD), o altro ancora. Ora, poiché è impossibile prevedere ciò che deciderà il popolo, ne deriva l’impossibilità di formulare una definizione descrittiva della democrazia, e, infatti, conosciamo democrazie liberali, sociali, comuniste, libertarie, elitarie, totalitarie, e via dicendo. Se ci limitiamo, dunque, a questa definizione, dobbiamo rinunciare a qualsiasi tentativo di identificazione valoriale della democrazia: democrazia sarà semplicemente ciò che avrà deciso il popolo. Bene ha fatto dunque Carlo Rosselli a vedere nella democrazia "il solo regime che non ha una meta specifica" (Urbinati 2011: 127).

2.5. Democrazia come sistema di valori
Nella realtà la democrazia non può essere ridotta ad una semplice struttura di istituzioni e procedure, perché nessun sistema politico può fare a meno di esprimere dei valori condivisi. Ebbene, a partire dal 1776, il pensiero democratico ha espresso due principali forme di codificazione di princìpi democratici, le Costituzioni e le Dichiarazioni, che hanno soppiantato la volontà del sovrano e le norme consuetudinarie. Si potrebbe dire che oggi sono questi i valori ritenuti connotativi della democrazia. Sono i valori di popolo, cittadino, libertà, uguaglianza, partecipazione, diritti della persona, divisione dei poteri, rappresentanza, e via dicendo, che siamo soliti associare all’idea di democrazia, tanto che, se un popolo sovrano rinunciasse spontaneamente anche ad uno di essi, dubiteremmo della sua democraticità.
Dobbiamo perciò ammettere che la democrazia non può essere identificata semplicemente con la volontà del popolo o con una somma di procedure e istituzioni, ma deve avere anche dei valori, o, come dice Bobbio, “dovrebbe essere insieme formale e sostanziale” (Bobbio, Democrazia, in Bobbio, Matteucci, Pasquino 2004). Ebbene, sono i valori democratici (libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia sociale, ecc.) che fanno della democrazia un fine più che una semplice procedura.

2.6. Democrazia come individualismo
“La democrazia è un sistema che crea le condizioni economiche, politiche e culturali per il pieno sviluppo dell’individuo” (Fromm 1992: 214). Secondo Gustavo Zagrebelsky, “La democrazia è l’unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità, mi riconosce capace di discutere e decidere della mia vita pubblica” (2007: 42). Se questa è la specificità della democrazia, ne consegue che un popolo è democratico quando rispetta la dignità della persona e crede nella capacità del cittadino di interpretare proficuamente un ruolo politico.
Un cittadino è democratico se è capace di pensare in modo autonomo e di assumersi responsabilità in merito alle proprie azioni. Di norma, qualsiasi cittadino può raggiungere questo traguardo, ma a due condizioni: deve avvertire il desiderio di essere un soggetto di diritti e deve ricevere una valida educazione.
Al contrario, un paese è democratico solo e nella misura in cui è in grado di formare cittadini democratici. Uno Stato incapace di formare cittadini democratici non può essere democratico, perché la democrazia origina innanzitutto dalla qualità delle singole persone. Infatti, come osserva Zagrebelsky, “una democrazia senza qualità individuali si applica ai capipopolo e questi, a loro volta, hanno bisogno di uomini-massa, non di uomini-individui” (2008: 124).
Un cittadino merita di essere lasciato libero se lo si ritiene capace di imparare a ragionare con la propria testa e di assumersi le proprie responsabilità politiche, ed per le stesse ragioni che merita di essere considerato uguale. Questo è lo spirito che si agita nelle nostre Costituzioni e Dichiarazioni e che può essere compendiato nel diritto al rispetto reciproco. In quanto persone libere e uguali, i cittadini meritano lo stesso rispetto. Ora, però, un cittadino non può pretendere che gli altri lo rispettino veramente se lui non è disposto a fare altrettanto con loro. Il rispetto per gli altri è il prezzo che egli dovrà pagare per poter pretendere il rispetto di sé. Secondo Zagrebelsky, “tolleranza, uguaglianza, diritti, democrazia ecc. non possono vivere se non sono accettati in una serie di rapporti in cui ciascuno è disposto a dare agli altri quel che pretende per se stesso” (2008: 6). Lo stesso studioso ha ritenuto di poter lanciare la seguente proposta: “Il motto della democrazia dovrebbe essere: «Rispetta il prossimo tuo come te stesso»” (2007: 44).
Il tratto fondamentale della democrazia potrebbe dunque consistere nel riconoscimento del valore della persona, e ciò spiega perché comunemente ci aspettiamo che la democrazia proclami che tutti gli esseri umani sono uguali per nascita e sono potenzialmente capaci di assumersi la stessa quota di sovranità. Se così non fosse, essa si confonderebbe con la monarchia assoluta (che riconosce la sovranità ad uno solo) o con l’oligarchia (che riconosce la sovranità a pochi) o con la repubblica censitaria (che riconosce la sovranità a molti).
È un dato di fatto che la democrazia si è affermata solo dove ci sono state persone che hanno avvertito il desiderio di libertà e autonomia, hanno creduto nei propri mezzi e hanno avuto piacere di essere artefici del proprio destino, e dove questo sentimento (che chiamiamo «individualismo») è mancato, si sono affermati regimi autoritari e paternalistici, in cui poche persone hanno pensato e deciso per tutti. La democrazia origina, dunque, dall’anelito dei cittadini alla propria libertà, quelli che Alain Touraine chiama “soggetti” (2008: 274), e risponde al bisogno di autonomia degli individui, attraverso la proclamazione dei diritti della persona, ma non a tutti.

2.7. Democrazia come governo dei cittadini
La democrazia è dunque fondata sulla figura del «cittadino democratico», che è, o è ritenuto, capace di “rispondere a qualcun altro delle proprie azioni o inazioni e delle loro conseguenze” (March, Olsen 1997: 192) e, poiché, come abbiamo detto, senza cittadini democratici non può esserci democrazia, un paese che voglia essere democratico destinerà la massima parte delle sue risorse alla creazione di istituzioni (scuola, associazioni di categoria, mass media, comunità locale) atte a formare cittadini liberi e responsabili e accrescere quanto più possibile il capitale umano. In ultima analisi, la democrazia può essere ben compresa solo assumendo che il suo “fine politico ultimo consiste nella promozione delle capacità individuali” (Nussbaum 2002: 80).
In virtù di questa semplice consapevolezza, possiamo dire che democrazia significa “consentire agli individui e ai gruppi di essere protagonisti della propria storia” (Touraine 1998: 251-2); significa riconoscere a ciascun individuo il diritto di gestire liberamente la propria sovranità, senza doverla alienare a favore di chicchessia; significa garantire a ciascuno un’esistenza dignitosa e aiutarlo ad esprimere al massimo il proprio talento naturale; significa garantire a tutti pari condizioni di partenza e dare a ciascuno secondo i propri meriti; significa favorire la pubblica discussione sia all’interno delle comunità locali sia nel web e la partecipazione di tutti i cittadini alla preparazione dell’ordine del giorno e al processo deliberativo; significa formare cittadini sovrani.

2.8. Democrazia come governo di uomini uguali
L’idea di democrazia viene spesso identificata col principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, che è stato a lungo accarezzato nei sogni delle masse popolari nel corso della storia. Non è qui il caso di entrare a fondo nell’intricata questione dell’uguaglianza. Ci basti ricordare che, nonostante siano stati versati fiumi di inchiostro, non si è approdati a punti fermi o verità condivise. Ciò ha indotto Felix O. Oppenheim ad affermare “che la moderna teoria democratica non può essere qualificata né come egualitaria né come inegualitaria, ma è una fusione di entrambi i generi di princìpi: livellamento fino ad un certo punto (attraverso distribuzioni diseguali), al di là del quale intervengono redistribuzioni inegualitarie” (2004). Come si pone, dunque, la democrazia nei confronti del principio di uguaglianza?
È incontrovertibilmente evidente che gli individui sono diversi per volontà e abilità, e ciò non può essere messo in discussione nemmeno dalla democrazia più estrema. Il principio di uguaglianza democratico dev'essere visto piuttosto come un giudizio di valore e non vuol dire altro che ogni individuo ha la medesima dignità di chiunque altro ed è meritevole del medesimo rispetto. L'uguaglianza, in democrazia, non si riferisce alle abilità dellla persona, ma alla persona complessivamente intesa, che è un unico, un assoluto, un incomparabile. È questa l'idea di u. che anima la democrazia, "l'idea cioè che gli esseri umani, donne e uomini, siano uguali per valore e dignità morale e che nessuno abbia per natura, tradizione, convenzione, volontà umana o divina un potere superiore tale per cui possa prendere decisioni sulla vita degli altri senza o contro il loro consenso" (Urbinati 2011: 129). In sostanza, la democrazia non è, e non può essere, del tutto egualitaria: essa può, al massimo, proporsi come il sistema politico meno inegualitario fra quelli esistenti.

2.9. Democrazia come governo di uomini liberi
Insieme all’uguaglianza, la libertà è comunemente ritenuta un fattore connotativo della democrazia, almeno di un certo tipo di democrazia, quella dei Locke, dei Montesquieu, dei Constant, che mira a garantire i diritti dell’individuo dal potere dello Stato e perciò si distingue dalle democrazie non liberali, come la democrazia plebiscitaria, populista e totalitaria. L’idea di libertà personale può essere considerata una riscoperta dei moderni e costituisce il fiore all’occhiello della democrazia liberale, che è degnamente simboleggiata dalle varie Carte costituzionali e dalle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo, nel cui prototipo, il Bill of Rights della Virginia del 12 giugno 1776, per la prima volta si legge: “Tutti gli uomini sono di natura egualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati”. In democrazia l’uomo è considerato libero, ma non solo e non tanto per la mancanza di impedimenti, quanto per l’effettiva capacità e volontà di formarsi ed esprimere opinioni proprie.

2.10. Democrazia come governo della legge
Per Platone, il potere politico spetta agli uomini più sapienti, ed essi potrebbero esercitarlo in modo assoluto se potessero contare in una spontanea sottomissione degli insipienti, cosa impossibile a causa della stessa ignoranza dell’insipiente, oppure se potessero imporsi con la forza, cosa altrettanto impossibile perché gli insipienti sono in maggior numero. La sola via che resta ai sapienti è quella di governare attraverso la legge (Strauss 1998: 157-68).
Già gli antichi ateniesi parlavano di isonomia (eguaglianza di fronte alla legge) come di un cardine della democrazia, ed erano convinti che, là dove governano le leggi, c’è, o si presume che ci debba essere, giustizia e i cittadini non dovrebbero avere di che lamentarsi. Quello che era isonomia per gli antichi diviene Stato di diritto o buongoverno per i moderni.
Le democrazie moderne incarnano lo Stato di diritto, che è fondato sui princìpi generali espressi nelle costituzioni o nelle consuetudini e specificati nelle leggi. Il potere delle leggi si contrappone al governo arbitrario del principe, e serve a tutelare il cittadino nei confronti di questa arbitrarietà. Il diritto è l’ordinamento normativo di uno Stato finalizzato al conseguimento di rapporti pacifici fra i cittadini e della conservazione dello Stato stesso. Nello stesso tempo, il diritto può essere visto “come il principale strumento attraverso cui le forze politiche che detengono il potere dominante in una determinata società esercitano il proprio domino” (Bobbio, Diritto, in Bobbio, Matteucci, Pasquino 2004).

2.11. Democrazia come rispetto dei diritti della persona
Le costituzioni e le leggi servono ad indicare e definire i diritti delle persone, ossia i loro bisogni. Ma in democrazia non basta il riconoscimento dei diritti sulla carta. Occorre anche che lo Stato si adoperi affinché il cittadino sia effettivamente in grado di esercitare i diritti di cui è accreditato dalla legge. Non basta, per esempio, proclamare il diritto alla libertà di pensiero dei cittadini per essere democratici. Infatti, la democrazia esige siano contemporaneamente messi in grado di esprimere un libero pensiero. “Il diritto di esprimere i nostri pensieri […] ha un significato solo se siamo capaci di avere pensieri nostri” (Fromm 1992: 189). Insomma, la democrazia deve impegnarsi nel rendere effettivi i princìpi enunciati nella Costituzione e nel reperire le risorse necessarie “per soddisfare i bisogni fondamentali [di tutti i cittadini]” (Fotopoulos 1999: 130-1).

2.12. Democrazia come governo laico
Tutte le democrazie tengono a distinguersi dai governi confessionali e perciò affermano di ispirarsi ai valori della laicità e al rispetto di tutte le religioni.

2.13. Democrazia come luogo di discussione aperta e illimitata
“La democrazia è il regime della circolazione delle opinioni e delle convinzioni, nel rispetto reciproco” (Napolitano, Zagrebelsky 2010: 47). Uomini liberi ed uguali che mettono sul tavolo delle discussioni le proprie idee, questa è la democrazia. Ma a determinate condizioni: la discussione è democratica quando i soggetti che si confrontano si limitino a spiegare le buone ragioni su cui poggiano le proprie opinioni e siano disposti ad ascoltare le buone ragioni degli altri a sostegno delle rispettive opinioni, rinunciando nel comtempo alla reciproca prevaricazione. "Il dialogo tra eguali riposa sul rispetto dell'autonomia di giudizio e sulla reciprocità: portare ragioni per ciò che si propone o non si vuole è un segno di rispetto per gli altri e un impegno a sforzarsi di essere attori pubblici, non solo individui privati" (Urbinati 2011: 130).
“La democrazia è discussione, ragionare insieme” Zagrebelsky 2008: 124). Si esprime nella libera discussione e cessa col cessare di questa. Possiamo perciò chiamare democratica una nazione nella quale, oltre ad esserci cittadini democratici, sono diffusamente praticati la libera discussione, il libero e pieno accesso alle fonti di informazione, il libero confronto delle opinioni su tutte le questioni di interesse generale, la scelta comunitaria dell’ordine del giorno e il processo deliberativo assembleare. Nella forma deliberativa Paul Ginsborg vede la massima espressione della democrazia, il mezzo capace di coniugare il meglio della DR e delle DD. Essa “non è una fabbrica di chiacchiere ma piuttosto uno strumento idoneo a coinvolgere un numero notevole di individui nella più importante attività della politica democratica: quella di prendere decisioni sagge entro ragionevoli termini di tempo” (Ginsborg 2004: 239).
C’è però un problema: “La democrazia nella sua forma partecipata è prolissa; in quanto tale, corre notevoli rischi […] di paralizzare le istituzioni” (Ginsborg 2004: 208). La discussione non regolata, infatti, potrebbe rivelarsi interminabile, sterile e inconcludente, col rischio di non decidere nulla e di paralizzare l’apparato esecutivo di cui ogni società ha bisogno per funzionare. Quasi quotidianamente, infatti, ogni comunità deve prendere decisioni su tante questioni, come la costruzione di una strada, di una scuola, di un ospedale, o la realizzazione di asilo nido o di una casa per anziani, e via elencando, tutte questioni sulle quali è quasi impossibile aspettarsi l’unanimità delle opinioni. Ebbene, la necessità di preservare la funzione decisionale impone l’introduzione di regole, ossia di limiti alla libertà dei cittadini, come quello di stabilire un termine alla discussione e di mettere ai voti le opzioni in campo, obbligando l’intera comunità ad accettare la volontà della maggioranza.
Tuttavia, una regola che decretasse la chiusura definitiva della discussione su un qualsiasi argomento decreterebbe la fine della democrazia stessa, che invece è fondata proprio sulla discussione. Di conseguenza, il voto può definirsi democratico solo quando la sua funzione si limiti a rispondere alle esigenze pratiche della comunità e non a spegnere la discussione. In altri termini, il voto è compatibile con la democrazia se serve a consentire il regolare svolgimento del processo esecutivo, ma non a bloccare la discussione. La democrazia, infatti, osserva Gustavo Zagrebelsky, “implica la reversibilità di ogni decisione” e, pertanto, “nessuna votazione, in democrazia […], chiude definitivamente una partita” (2007: 19).

2.14. Democrazia come rispetto sia della maggioranza che della minoranza
La procedura democratica prevede che, dopo che le parti abbiano espresso le rispettive opinioni corredate delle loro buone ragioni, si passa alla votazione e si accetta all'unanimità l'opinione che abbia ricevuto la maggioranza dei consensi, elevandola a dignità di legge. Ciò però non dovrà implicare che i dissenzienti debbano rinunciare alle proprie opinioni: il fatto di aver votato la volontà della maggioranza non dovrà impedire alla minoranza (al limite estremo, all'unico individuo dissenziente) di continuare a manifestare il proprio dissenso. È pertanto da ritenere corretta l'annotazione di Nadia Urbinati, secondo cui "la capacità di dissentire nonostante si obbedisca alla legge è la virtù più peculiare della cittadinanza democratica" (2011: 166). Secondo la studiosa, "la più peculiare virtù democratica è quella del dissenso" (Urbinati 2011: 140). In pratica, in democrazia accade questo, che la maggioranza fa le leggi ricevendo l'approvazione della minoranza, la quale tuttavia conserva il diritto del dissenso. È in questo senso che la democrazia porta rispetto tanto alla maggioranza quanto alla minoranza.

2.15. Democrazia come processo deliberativo aperto
La democrazia trova la sua naturale espressione in quella che è stata chiamata «democrazia deliberativa». “L’aggettivo inglese deliberative (deliberativo), riferito alla democrazia, racchiude in sé il doppio significato di discutere e decidere. Nell’arena deliberativa i cittadini sono chiamati non solo a dibattere fra loro o con i politici, ma a giocare un ruolo significativo nel processo decisionale” (Zagrebelsky 2007: 73). “A definire la democrazia deliberativa è la stessa idea di deliberazione. Nel deliberare, i cittadini si scambiano opinioni sulle questioni di politica pubblica, e discutono le ragioni che le sostengono” (Rawls 2001: 185), con la disposizione d’animo di chi è disposto a confrontarsi lealmente, a mettersi in discussione e a rivedere le proprie posizioni. In ultima istanza, la democrazia deliberativa si fonda sulla fiducia nei cittadini e sulla loro partecipazione responsabile alla politica.
La sede specificamente preposta al dibattito fra cittadini comuni e alla deliberazione assembleare è la Comunità Locale.

2.16. Democrazia come partecipazione
La democrazia è innanzitutto partecipazione. “L’esistenza di una qualsivoglia istituzione democratica nella sfera politica si svuota da sé di ogni significato quando un gran numero dei cittadini non si trovano in una condizione economica che consenta loro di dedicare il tempo necessario a un’effettiva partecipazione alle procedure democratiche” (Fotopoulos 1999: 45).
In assenza di valide ragioni, la democrazia esige che le decisioni di pubblico interesse vengano prese direttamente dal maggior numero possibile dei cittadini democratici. Si può discutere se su ogni questione debbano essere chiamati a decidere «tutti» o soltanto quelli interessati o competenti, ma non è questa la sede opportuna. Qui ci limitiamo ad osservare che questa questione è da annoverare fra gli aspetti procedurali, e non sostanziali, della democrazia. In altri termini, ai fini della democraticità, non è necessario che tutti partecipino su tutto, ma che nessuno, fra quanti si sentano interessati o competenti in una specifica questione, venga escluso dal processo decisionale deliberativo. “La libertà non consiste nel numero di persone che scelgono di partecipare ai processi decisionali, ma nel fatto che esse abbiano l’inalienabile possibilità di farlo, di scegliere se decidere o non decidere su questioni di pubblico interesse” (Bookchin 1995: 493).

2.17. Democrazia come sovranità del cittadino
La D può essere vista come un sistema politico fondato sulla sovranità del cittadino. "La sovranità del giudizio individuale –lo stesso principio che giustifica il «governo per mezzo della discussione» – è il «punto fisso» (ciò che i cittadini convengono a tenere come «sacro») che tiene insieme la società democratica" (Urbinati 2011: 132). In effetti, la sovranità del cittadino può a buon diritto rappresentare la quintessenza della D, ovvero il fattore in base al quale si potrà distinguere una vera democrazia da una pseudo-democrazia. La vera democrazia non è necessariamente sinonimo di buongoverno. Il buongoverno dipende, infatti, dalla qualità dei cittadini sovrani. Alla fine dovremmo ammettere che il buongoverno democratico è quello che favorisce la formazione di cittadini democratici e riconosce loro un diritto sovrano.

2.18. Democrazia come macchina di governo
Come ogni altro sistema politico, anche la democrazia ha bisogno di adeguate strutture per funzionare. Tuttavia, a differenza dei regimi autocratici, in democrazia queste strutture non dipendono dalla volontà di un sovrano, ma obbediscono ad un quadro di norme generali, che sono espresse in una Carta costituzionale o sono desumibili dalla consuetudine.

2.19. Democrazia come Federalismo
Uno dei modelli organizzativi più congeniali alla democrazia è il federalismo.

2.20. Democrazia come capitalismo
“In molti paesi, la democrazia consiste unicamente nell’assenza di un potere assoluto e nel trionfo dell’economia di mercato. Ma se è vero che non c’è democrazia senza economia di mercato, è anche vero che spesso l’economia di mercato è legata a regimi non democratici” (Touraine 1998: 254).
Francis Fukuyama chiama «liberale» o «capitalistica» la democrazia che riconosce il “diritto alla libera attività economica ed allo scambio economico basato sulla proprietà privata e il mercato” (1996: 65). Secondo lo studioso, la democrazia capitalistica costituisce il punto d’arrivo dell’evoluzione culturale dell’umanità e la forma definitiva di governo politico, e, pertanto, rappresenta la “fine della storia” (1996: 9). Insomma, “oggi noi riusciamo a malapena a immaginarci un mondo migliore del nostro, o un futuro che non sia sostanzialmente democratico o capitalista” (1996: 67). Nel suo argomentare, Fukuyama parte dal «primo uomo», ossia dall’uomo nello stato di natura, il quale, a differenza di altri animali, avvertiva già un desiderio di gloria (thymòs), che lo induceva a mostrarsi coraggioso e a rischiare la propria vita pur di cattivarsi il riconoscimento degli altri (1996: 164ss). Erano pochi, tuttavia, coloro che provavano questo sentimento, che Fukuyama chiama «megalotimia». In maggior numero gli uomini si accontentavano, infatti, di essere riconosciuti come uguali (isotimia). I primi diventarono padroni, i secondi schiavi (1996: 165), e tutto ciò che c’è di buono nella storia è stato creato proprio da quegli uomini che cercavano la grandezza (1996: 318). Ebbene, la democrazia capitalistica è la forma di governo che si sono data gli uomini migliori.

2.21. Democrazia come cosmopolitismo
“La democrazia cosmopolitica è un progetto estremamente ambizioso il cui obiettivo è il conseguimento di un ordine mondiale ispirato ai valori della legalità e della democrazia” (Archibugi, Beetham 1998: 66).

2.22. Democrazia come utopia
La democrazia ha sempre avuto la presunzione di presentarsi come il migliore dei governi rispetto a quelli esistenti. Lo si può desumere tanto dalle orgogliose parole pronunciate da Pericle nel famoso discorso in commemorazione dei caduti dopo il primo anno della guerra del Peloponneso (Tucidide II, 37) quanto dalla prosopopea che mostrano gli Occidentali allorché confrontano il loro sistema politico con quello di chiunque altro. In un certo senso, ciò è dovuto al fatto che tendiamo a vedere nella democrazia quasi il coronamento di un sogno che ci ha accompagnato sin da tempi remoti, il sogno di realizzare una società migliore e più giusta. Storicamente questo sogno ha prodotto tentativi concreti di democratizzazione e costruzioni utopiche.

2.23. Fattori pro e anti democrazia
Si veda in http://studisudemocrazia-democrazia5.blogspot.com/ post n. 9.

3. Democrazia diretta

È stata chiamata così dai moderni quella che, per gli antichi, era semplicemente la «democrazia senza aggettivi» della quale abbiamo parlato. Ci chiederemo ora che cosa significhi l’aggettivo «diretta», perché questa forma di democrazia è stata fatta oggetto di critiche, quali fattori la favoriscono e quali le si oppongono, perché crederci o non crederci.
Iniziamo con l’aggettivo «diretta» e diciamo subito che esso non aggiunge nulla alla sostanza della democrazia, ma serve solo ad indicare che il potere politico è esercitato dai cittadini in modo diretto e senza intermediari. È un aggettivo che inerisce alla procedura e non ai valori che sostanziano la democrazia. È poiché, com’è stato osservato, la democraticità di una decisione risiede nei valori che essa esprime. non meno che nella modalità in cui la decisione stessa è stata presa, ne consegue che dobbiamo sfatare la convinzione, assai diffusa, che «diretta» significhi «più democratica».

3.1. Democrazia referendaria
Ora, si dà il caso che il referendum sia oggi assurto a simbolo del «direttismo», a tal punto che espressioni come «democrazia diretta» e «democrazia referendaria» vengono usate pressoché come sinonimi, e anche come sinonimi di maggiore democrazia (Verhulst e Nijeboer 2007; Benedikter 2008; Michelotto 2008). Non ci si accorge che, così facendo, si continua così ad enfatizzare l’aspetto procedurale a discapito di quello sostanziale della democrazia. Il referendum, infatti, è una semplice specificazione dell’aggettivo «diretta», talché dire «democrazia diretta referendaria» vuol solo indicare che anziché votare nell’assemblea per alzata di mano sulle singole questioni all’ordine del giorno, si vota nella cabina elettorale (o per posta e per via telematica) su una o più specifiche questioni prestabilite. L’aggettivo «referendaria» inerisce alla procedura, non ai valori della democrazia. Inoltre, in quanto strumento, il referendum è privo di valore etico, ciò dipendendo da chi lo usa.
Il fatto che paesi tra i più civili al mondo, come Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia, pratichino scarsamente le iniziative popolari e i referendum, e dunque sono “quasi esclusivamente fondati sul principio di rappresentanza” (Suksi 1994: 133), prova che democrazia e referendum sono due cose diverse.
I valori della democrazia non dipendono dal referendum, ma dalla presenza di cittadini democratici. Infatti, come ha ben osservato Gustavo Zagrebelsky, “una democrazia senza qualità individuali apre la strada ai demagoghi” (2007: 19). Il che vuol dire che la partecipazione referendaria dei cittadini può ben essere desiderabile, ma non perché produce un incremento di democrazia.

3.2. Democrazia senza partiti e senza rappresentanza
Dal momento che orbita intorno al cittadino democratico, la democrazia non è né di destra, né di sinistra, né di centro, perché il cittadino è un microcosmo in continuo divenire e senza contorni precisi, che mal si presta ad essere ingabbiato in partiti politici precostituiti e nemmeno ad essere soggetto a leggi o norme morali assolute. In un paese democratico, i cittadini dovrebbero decidere di volta in volta come meglio credono e nel rispetto del principio di sussidiarietà. Nei casi che richiedano una rappresentanza, i soggetti prescelti non dovrebbero ottenere una delega in bianco, ma agire in veste di commissionari, ovverosia svolgere una mansione meramente esecutiva, sulla base di clausole registrate in uno specifico contratto e di un mandato imperativo. Se così non fosse, i cittadini risulterebbero divisi in due ben distinte classi sociali e ciò prefigurerebbe una «società duale» che, come abbiamo osservato, non può essere fatta rientrare fra i valori democratici.

3.3. Modelli di Democrazia Diretta
Oggi non esistono modelli operativi di DD paragonabili a quello che si è affermato nell’Atene del VI-V secolo. “La democrazia diretta […] non solo non esiste, ma neppure costituisce l’utopia di alcuna forma politica significativa” (Salvadori 2009: 11). Esistono invece modelli, che possiamo chiamare «misti», ossia modelli DR con implementati elementi di DD (primi fra tutti, lo strumento referendario e l’e-democracy).

3.4. Critiche alla DD
Le critiche che sono state mosse alla DD e che ne hanno impedito l’affermazione nell’età contemporanea sono essenzialmente due: la DD si addice solo alle piccole comunità; il popolo non sa autogovernarsi. Per questi temi si rimanda al blog http://studisudemocrazia-democrazia5.blogspot.com/

3.5. DD: luci e ombre
La DD è il sistema politico pro-individuale per eccellenza e, in quanto tale che stimola al massimo grado le potenzialità, i talenti e l’apporto produttivo e creativo di ciascun cittadino, e favorisce, più di ogni altro, lo sviluppo psicofisico dei cittadini, la loro libertà, la loro maturità, il loro desiderio di autonomia, la loro felicità.
Per contro, la DD è anche un sistema molto dispendioso, che si può realizzare solo se è disponibile un’adeguata ricchezza economica. Inoltre, la DD richiede molto ai cittadini e “può davvero risultare logorante e defatigante: in un certo senso, quanto più è democratica, tanto più sfinisce chi ne fa parte” (Ginsborg 2004: 207).
La DD non è buona in sé: la sua bontà dipende dalla volontà degli individui di autogovernarsi e dalla loro maturità, che non è stabile nel tempo, ma va costantemente alimentata e sostenuta. Se gli individui non sono messi in grado di assumersi le proprie responsabilità, il sistema entra in crisi e si rischia di cadere nell’autoritarismo e nella dittatura.
Si tratta, in definitiva, di un sistema politico instabile e delicato, che richiede continue attenzioni.

4. Democrazia rappresentativa

Se ora al posto di «diretta» usiamo l’aggettivo «rappresentativa», ancora una volta, non interveniamo sulla sostanza dei valori democratici, ma stiamo semplicemente indicando una modalità operativa, stiamo cioè dicendo che i cittadini esercitano il proprio potere attraverso dei rappresentanti eletti senza vincolo di mandato. Qualcuno (Benedikter 2008; Michelotto 2008) vede in ciò un limite per la democrazia e perciò chiede l’introduzione di nuovi strumenti di democrazia diretta, che però, come abbiamo detto, hanno il limite di muoversi nell’ambito procedurale e di non entrare nel merito dei valori democratici. Il fatto è che la procedura, qualunque procedura (suffragio, referendum o altro), non garantisce sulla qualità della democrazia. Un paese può pure disporre della migliore costituzione e delle migliori procedure, ma finché non sia riuscita a risolvere la piaga della povertà e dell’ingiustizia sociale, molti suoi cittadini non godranno della pienezza dei diritti democratici e che ci saranno ancora limiti di democraticità.
La DR è una forma di governo che affida il potere politico a rappresentanti eletti mediante voto libero e periodico e con suffragio universale, e che ruota attorno ad alcuni fondamentali princìpi (sovranità popolare, rappresentanza, maggioranza e pluralismo), alcuni fondamentali diritti (libertà, uguaglianza di fronte alla legge e informazione aperta a tutti), alcune fondamentali istituzioni sociali (proprietà privata, partiti politici, famiglia e gruppi di potere) e alcuni fondamentali obiettivi (sicurezza e benessere sociale economico). In realtà, è solo teoricamente che il potere sovrano appartiene al popolo, che tutti i cittadini possono essere eletti, che tutti possono esprimere le proprie opinioni e accedere a fonti di informazione alternative a quelle offerte dal sistema, che tutti sono liberi di costituire associazioni e gruppi di interesse e di competere in condizioni d’uguaglianza. Concretamente, nessun cittadino, preso individualmente, è veramente libero, e questi diritti possono essere esercitati concretamente solo all’interno di gruppi di potere e tramite rappresentanti.

4.1. La DR come «società duale»
In generale, chiamiamo «società duale» ogni comunità organizzata, nel nostro caso uno Stato, ove sia possibile distinguere agevolmente due diversi livelli di cittadinanza: quello dei cittadini-rappresentanti, che sono accreditati delle qualità necessarie per assumersi responsabilità di governo, e quello dei cittadini-comuni, che si ritiene sprovvisti di quelle qualità; quello dei cittadini agiati, che sono liberi di impostare e seguire il proprio progetto di vita, e quello dei cittadini indigenti, che ogni giorno devono fare i salti mortali per far quadrare il bilancio familiare e ai quali non resta il tempo per occuparsi d’altro che di sopravvivere; cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Il modello duale di società è alimentato dalla logica di gruppo e dalla ragion di Stato che, per millenni, hanno dominato la scena politica, sovrastando il cittadino comune, oberandolo di doveri (soprattutto quello di ubbidienza a Dio, alle autorità e alle leggi), e obbligandolo a svolgere un ruolo secondario e strumentale agli interessi di altri soggetti politici (il re, il partito, l’istituzione, la famiglia, la maggioranza, la patria, la legge, la religione). Questo è il quadro che caratterizza i sistemi politici autoritari, paternalistici e autocratici, che si sono succeduti nel corso della storia.
Lo stesso quadro viene riproposto anche nelle DR contemporanee, sia pure con due principali differenze. La prima è che nell’autocrazia i governanti vengono prescelti dal monarca, nella democrazia dai partiti. La seconda differenza è che nei regimi autocratici il potere si conquista con l’uso delle armi, in DR con le elezioni. Non per niente la DR è stata indicata da Hayek come “l’unico metodo pacifico di mutamento di governo finora scoperto” (1994: 377). Rispetto all’autocrazia si tratta, con tutta evidenza, di un significativo passo in avanti, ma solo sotto il profilo formale. Permane, infatti, la netta distinzione fra i titolari effettivi della sovranità e i cittadini, fra gli eletti e gli elettori, i delegati e i deleganti, i dominanti e i dominati, quelli che decidono e quelli che subiscono, le persone che godono pienamente dei diritti previsti dalla legge e quelle che ne sono escluse. Giovanna Zincone parla di «cittadinanza disuguale» e aggiunge: “Che la cittadinanza non sia un pacchetto di diritti uguali per tutti non è un’eccezione, è la regola” (1992: 9).
Sostanzialmente, dunque, la società duale DR non è molto diversa da quella dei sistemi autocratici. E infatti, in ogni Stato e in ogni città DR i due livelli sono ben riconoscibili e danno vita a due realtà profondamente diverse: nella cittadinanza di serie A c’è istruzione, cultura, conoscenza, organizzazione, abbondanza di beni, ostentazione di lusso; nella cittadinanza di serie B c’è ignoranza, disordine, ristrettezza e miseria. I pochi riducono i salariati a ceto servile e ricorrono alla forza per difendere i propri interessi. “Come il salariato, venendo a sostituirsi all’economia a servi e a schiavi, ha reso inutile ogni costrizione per mantenere il lavoratore nello stato di soggezione, e ne ha realizzato la soggezione automatica e, apparentemente, libera e spontanea; così coll’esercito permanente, a base di coscrizione, si è raggiunto questo curioso risultato di far sì che il popolo stesso presti automaticamente la forza materiale per assicurare il predominio della classe politica dominante sopra sé medesimo” (Rensi 1995: 88-9).
Questo quadro è particolarmente preoccupante se pensiamo che i paesi DR costituiscono la parte più avanzata e civile dell’umanità. Negli altri paesi è peggio, nel senso che la distanza fra le classi sociali è ancora più marcata e i cittadini di serie A sono meno numerosi. Il risultato è duplice: da una parte, non c’è al mondo città, per quanto civile e ricca, che non contenga un campionario di miseria, indigenza, vagabondaggio e disoccupazione; dall’altra parte, non c’è città di infimo livello dove, accanto all’indigenza delle masse, non sia possibile notare la magnificenza di una minoranza di persone che si muovono nella sfera dell’alta tecnologia e dell’alta moda, dei grandi affari e dell’alta finanza. Nella ricca Europa, ad esempio, si contano oltre 50 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (Atkinson 2000: 11). Non migliore è la situazione nel più ricco paese del mondo, gli Usa, che “registrano la più elevata [fra i paesi ricchi] percentuale di popolazione in condizione di povertà relativa (17%)” (Ginsborg 2004: 5-6).
Ora, se con una semplice operazione mentale, mettiamo insieme tutte le società duali del pianeta e le consideriamo come se fossero un’unica realtà, noteremo non uno, ma Due Mondi: il primo è quello dei ricchi, il secondo quello dei poveri. Nel mondo duale sono facilmente riconoscibili un esiguo numero di persone così ricche da vivere ad un livello quasi sovrumano e una massa di persone così povere da vivere ad un livello quasi subumano. È stato calcolato, infatti, che, nel 1999, le 225 persone più ricche della terra possedevano un patrimonio pari al reddito di un intero anno del 47% della popolazione più povera del pianeta e cioè di 2,8 miliardi di persone.
Nel mondo duale i pochi cittadini liberi condizionano e guidano dall’esterno le masse come se fossero bambini o marionette: è il cosiddetto «problema di Pinocchio». Ebbene, i fili che muovono gli individui non sono presenti solo nei regimi autoritari, ma sono ben visibili anche nei paesi a regime DR, e poco cambia se, al posto dei tiranni a muoverli siano i molteplici attori del capitalismo globale: in entrambi i casi il «problema di Pinocchio» resta irrisolto.
Ebbene, ai fini della democrazia, la povertà costituisce un problema, dal momento che i poveri sono, in varia misura, escluse dall’esercizio dei diritti e impossibilitati ad organizzarsi e a portare avanti una qualsiasi azione politica seria. Perciò, quanto maggiore è il numero degli esclusi, tanto minore è l’effettualità dei valori democratici.

4.2. Democrazia come sistema procedurale
Ora, se ci limitiamo a definire la democrazia «governo del popolo» senza preoccupazione alcuna per i valori, l’unica cosa che possiamo fare è mettere a punto le più opportune norme procedurali atte a consentire al popolo di governare. Ed è questo che fanno prevalentemente le nostre repubbliche democratiche: “stabiliscono come si debba arrivare alla decisione politica non che cosa si debba decidere. Dal punto di vista del che cosa l’insieme delle regole del gioco democratico non stabiliscono nulla” (Bobbio, Democrazia, in Bobbio, Matteucci, Pasquino 2004). Così facendo, esse trascurano i valori e riducono la democrazia ad un semplice sistema di cariche istituzionali e di procedure, che può variare, dando origine a modelli democratici diversi.
Regole e procedure fanno parte integrante della DR, con la quale a volte si identificano. “Che cos’è la democrazia se non un sistema di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue?” (Greco 2000: 242). Essa, osserva Bovero, “è formale per definizione” (2000: 34). Così intesa, la democrazia è caratterizzata non tanto dai valori che proclama, quanto dalle regole che mette in campo; non dai contenuti della sua costituzione, ma dalla forma in cui vengono resi operativi; non dai princìpi di giustizia sociale, ma dagli iter burocratici. In altri termini, la DR è orientata più al rispetto delle regole che ai bisogni degli individui. Questo è il leitmotiv che è stato continuamente ripetuto da molti studiosi e che ha in Hans Kelsen uno degli uomini di punta. Ebbene, per il pensatore austriaco, in politica conta soprattutto la forma, mentre la giustizia è ridondante.
Tra gli epigoni più recenti di Kelsen, può essere ricordata Anna Pintore (2003), che colpisce per l’acribia teoretica della sua indagine speculativa. Nel suo lavoro, la studiosa prende le distanze da alcuni fra i più eminenti intellettuali contemporanei, come D. Thompson, A. Gutmann, J. Cohen, J. Habermas e J. Rawls, che, a suo giudizio, hanno il torto di mescolare arbitrariamente la democrazia con la giustizia e i diritti. Secondo la Pintore “questa reductio ad unum di diritti, democrazia e giustizia sociale […] è altamente inopportuna e nociva” (2003: 92). Che cos’è, dunque, la democrazia per la Pintore? Nient’altro che un metodo procedurale imperniato soprattutto sul principio di maggioranza. “In alternativa al principio di maggioranza c’è solo il principio di minoranza, c’è solo l’autocrazia” (2003: 106). Pretendere di trovare nella democrazia giustizia e diritti è, per la Pintore, “utopistico” (2003: 71).

4.3. Democrazia come suffragio universale
In DR, la partecipazione dei cittadini è un atto non fondamentale e limitato al voto. Infatti, “l’estensione massima possibile del supporto elettorale è il requisito richiesto per chiamare un sistema «democratico»” (Linz 2006: 426). È come dire che la DR si riduce al suffragio universale e a poco altro. Nietzsche, che ha definito il suffragio universale quel “sistema grazie al quale le nature inferiori si impongono alle superiori a norma di legge” (1994: 471), si sarebbe fatta un’idea pessima della DR.

4.4. Democrazia come governo della maggioranza
Le democrazie dei moderni sono sistemi di governo fondati sul principio di maggioranza. Secondo tale principio, la maggioranza redige l’ordine del giorno e governa, la minoranza va all’opposizione. Assieme alla procedura, il principio di maggioranza è ritenuto una componente essenziale della democrazia.

4.5. Democrazia come governo dei partiti
In tutti i paesi a regime DR i partiti esercitano “un sostanziale monopolio dell’azione politica” (Salvadori 2009: 30) e sono considerati “indispensabili per organizzare la volontà pubblica” (Della Porta 2009: 17). Essi, pertanto, costituiscono una componente connotativa della DR, insieme al principio maggioritario e quello procedurale.

4.6. Limiti della DR
4.6.1. Rappresentanti/Rappresentati
Se è vero che il voto è la massima espressione della procedura democratica, è anche vero che esso “è solo la facoltà concessa ai cittadini di scegliere chi li dovrà governare” (Hirst 1999: 7). Il potere politico reale è in gran parte esercitato dai segretari dei partiti stessi e non dai cittadini, e il suffragio universale non si prefigge di favorire l’effettiva partecipazione del cittadino, o l’esercizio effettivo della sovranità individuale, e tanto meno l’autogoverno popolare. La sua funzione è invece quella di consentire ai cittadini di esprimere un voto su una lista di candidati designati dal partito ed eleggere, in tal modo, dei rappresentanti.
4.6.2. Il politico di professione
Il passaggio dalla democrazia elitaria alla democrazia di massa sancito dall’introduzione del suffragio universale ha favorito l’affermazione del politico di professione, che è disposto a investire tempo e denaro, allo scopo di acquisire i voti necessari per essere eletto e iniziare una carriera lucrosa. Ma, così facendo, osserva Luciano Canfora, la democrazia è perduta. Infatti, “è improprio definire «democrazia» un sistema politico nel quale il voto è merce sul mercato politico, e l’ingresso nel Parlamento comporta una fortissima «spesa» elettorale da parte dell’aspirante «rappresentante del popolo»” (2002: 27).
4.6.3. Scarsa democraticità del maggioritario
La scarsa democraticità della DR vale soprattutto per i sistemi maggioritari. La «forzatura» maggioritaria, infatti, “determina necessariamente un governo di minoranza” (Canfora 2006: 319), penalizzando qualunque Terza forza. Alla fine, il principio di maggioranza si rivela per essere poco più di un puro e semplice fenomeno di illusionismo democratico, un semplice espediente per tener buona la gente. Canfora parla di “democrazia oligarchica”, ma forse sarebbe più corretto parlare di «oligarchia plutocratica», per indicare che, di norma, i rappresentanti eletti appartengono alla cerchia delle persone più facoltose. Infatti, almeno in America, “i candidati devono essere o molto ricchi o molto dipendenti da persone molto ricche, se vogliono essere eletti” (Dahrendorf 2001: 58). In realtà, anche in Italia la ricchezza è un fattore determinante per “costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali” (Canfora 2006: 331).
4.6.4. Il fenomeno della corruzione
Una delle conseguenze della politica come professione è il fenomeno della corruzione, una sorta di virus endemico che altera i più o meno pregevoli impianti costituzionali dei vari paesi cosiddetti democratici, offrendoci il quadro di una democrazia malata, se non addirittura di una non-democrazia. “La corruzione intacca il principio della trasparenza, inducendo lo sviluppo di un sistema di scambi illeciti che garantisce un accesso privilegiato a chi è disposto a pagare tangenti, cioè a violare la legge nella ricerca di una protezione individuale” (Della Porta, Vannucci 1994: 91). Anche se con sensibili variazioni quantitative, la corruzione “appare sempre di più un problema comune a molte, se non a tutte, le democrazie” (ivi p. 4-5) e rappresenta “una delle espressioni più drammatiche delle contraddizioni cui va incontro il modello trionfante della democrazia” (ivi p. 4).
4.6.5. Il fenomeno dell’astensione
Un’altra conseguenza del professionismo politico è che i cittadini si allontanano dalla politica, lasciando campo libero a gruppi di interesse, lobby e partiti, e sono a questi che i rappresentanti eletti dovranno render conto più che ai cittadini elettori, col risultato che la loro azione di governo sarà orientata più ad interessi di parte che all’interesse generale. Questo è quanto lamenta, per esempio, Fareed Zakaria, in riferimento agli Usa (2003: passim), e non c’è ragione di credere che la situazione in Italia sia diversa.
4.6.6. Il paradosso della DR
Oggi è diffusa l’opinione che un paese “è democratico se permette ai propri cittadini di scegliersi il governo che vogliono attraverso elezioni periodiche, pluripartitiche ed a scrutinio segreto, in base al suffragio uguale e universale” (Fukuyama 1996: 64). Un paese democratico è considerato civile quando rispetta la procedura democratica, mentre si dà meno importanza al fatto che non tutti i cittadini riescono ad esercitare i propri diritti fondamentali. È il paradosso della DR: proclamare diritti universali e non preoccuparsi di renderli effettivi! In pratica, tolleriamo che la massa dei cittadini comuni rimanga esclusa dall’esercizio del potere e i più poveri fra essi siano, di fatto, esclusi dall’esercizio dei più elementari diritti democratici.
Ci professiamo democratici, ma forse non lo siamo veramente. Forse la professione di democraticità è solo una pezza giustificativa per la nostra cattiva coscienza e il termine «democrazia» è “il nome di ciò che non possiamo avere, e che tuttavia non possiamo smettere di volere” (Dunn 1983: 51-2). Massimo L. Salvadori parla di “democrazia senza democrazie” (2009). Rimane il sospetto che, in fondo, la DR sia solo una pseudo democrazia e che la democrazia, quella vera, sia “rinviata ad altre epoche” (Canfora 2006: 367).

4.7. DR: luci e ombre
Il fatto che il sistema DR si sia affermato in molti paesi del mondo e sia operativo presso cinque civilissimi paesi del Nord Europa (Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia e Finlandia) prova la sua intrinseca validità. La DR è sicuramente preferibile ai governi autocratici, rispetto ai quali riconosce maggiori diritti e moltiplica i centri di potere, tanto da meritare l’appellativo di «poliarchia».
Per contro, la DR è un sistema politico non pienamente democratico, perché non riconosce la sovranità dell’individuo. Diceva Montesquieu nello Spirito delle leggi: “il popolo, ciò che non può fare da solo, lo rimette ai suoi ministri (II,2). Ma soltanto ciò che non può fare da solo. Oggi noi diciamo il contrario: il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti” (Bobbio 1999: 375). Questo tipo di democrazia, osserva Bobbio, si potrebbe chiamare “aristocrazia elettiva” o “elitismo democratico” (1999: 375), o in qualsiasi altro modo, ma non democrazia.